Il futuro del web

 

La recente decisione di Twitter di consentire la rimozione di tweet (presuntivamente) “incompatibili” con gli ordinamenti di giuridici di taluni Paesi ha scatenato in Rete un dibattito furibondo. Oggi esce un articolo interessante su Corriere.it, nella sezione “La Lettura” a firma Fabio Chiusi. Contestualmente ricevo sul mio aggregatore feed questo articolo di Rob Greenlee.  Si parla della rivolta dei netizen, dei cittadini digitali, e della necessità di affermare, in Rete come nella vita “analogica”, taluni principi di base come autodeterminazione, libertà, privacy. Si parla delle app come sistema di circoscrizione dell’esperienza Internet, dei “giardini chiusi” imposti da talune Società, come Apple o Facebook, in grado di limitare fortemente la nostra capacità di autodeterminazione digitale. Ne aveva parlato Chris Anderson qualche tempo fa su Wired, annunciando la morte del Web in favore delle App e innescando un confronto ancora in corso sul futuro di Internet.

Il quadro che esce dall’articolo, certamente meritevole per il solo fatto di aver guardato dentro il problema, è fin troppo semplicistico. In primo luogo la figura del netizen è ancora di là da poter essere compiutamente identificata. Il cittadino digitale non è solo, e non soltanto, quello che utilizza servizi in Rete ma colui il quale fa della Rete il luogo eletto per l’espressione della propria persona e per definire se stesso nell’ambito di quei principi basilari che le Leggi Fondamentali di ciascun Paese, vedi la nostra Costituzione, sanciscono. Tutto questo, tenuto conto della profonda arretratezza di taluni sistemi, come il nostro, è tecnicamente irraggiungibile, quanto meno all’attualità. La dimensione di utilizzo di Internet è dunque quella “appificata” e facilitata da smartphone e tablet che inducono una possibile esperienza permanente della Rete filtrando comunque contenuti e possibilità espressive che, al contrario, il Web vero e proprio è grado di amplificare ed espandere (ripeto, tenuto conto delle attuali disponibilità tecniche).

In secondo luogo mi pare che l’invocata responsabilità sociale delle aziende del comparto, per quanto giustamente evocata, sia un traguardo lontano e difficile da raggiungere atteso che, come bene evidenziato dall’articolista, vi sono aziende, anche tra le più rilevanti a livello mondiale, che assecondano ben volentieri il volere di certi governi pur di mantenere importanti quote di business in quei Paesi. L’invocato parallelismo con la responsabilità sociale delle imprese produttive (ad esempio in termini di inquinamenti prodotti) rappresenta una parte della soluzione; l’altra parte è rappresentata dalla necessità di denunciare portando Internet fuori da Internet, partecipando la notizia, l’evento anche a quella platea di non specialisti, di analfabeti digitali che rappresenta il motore silenzioso di cui è necessario provare a verificare il funzionamento e la possibilità di provocare una scintilla.

Questa è una responsabilità comune che può finalmente avviare la rivoluzione dei netizen. Il cittadino digitale si esprime in Rete come nella quotidianità; è ora di eliminare il distinguo e di portare le considerazioni su un piano univoco allineando Internet a qualsiasi altro mezzo di espressione della propria personalità. Una battaglia come quella per l’art. 21-bis della Costituzione Italiana promossa anche da Stefano Rodotà rappresenta qualcosa che va oltre i vagheggiamenti progressisti alla Riccardo Luna/Wired, ma si traduce in una fattiva presa di coscienza della rilevanza di Internet e dei fenomeni connessi.

Dunque è necessaria una rivoluzione culturale, che diventi una rivoluzione degli strumenti affrancando Internet dalle app e ridando al Web la centralità necessaria nella determinazione degli aspetti fondanti della nostra esperienza digitale. In un post precedente ho offerto le mie considerazioni sulla quotazione in borsa di Facebook ed ho evocato la questione dei giardini chiusi. Molti big dell’industria di Internet sono ancora fuori da iniziative come la GLobal Network Initiative ed è lecito porsi domande e dubbi sulla presenza di Google e Microsoft. Certo è rilevante che manchino all’appello Facebook e Twitter ed è assolutamente rumoroso il silenzio di Apple. Ma la verità è che certe iniziative devono partire dal basso, è improponibile pensare che le aziende di un settore non facciano cartello per darsi un codice di autoregolamentazione che non ha forza vincolante per il semplice motivo che non è disponibile a soggetti diversi dai firmatari.

La rivoluzione culturale deve partire dal basso con segnalazioni, con la richiesta di mettere bene in evidenza quelle aziende che aderiscono alle richieste di governi del cui rispetto delle convenzioni internazionali si dubita proprio come si sono spesso messi nero su bianco i nomi di quegli istituti bancari che finanziano il commercio delle armi. Occorre una rivoluzione delle coscienze che superi la barriera delle app e che apra nuovamente il Web riconoscendo l’insufficiente tutela dell’esperienza di Internet come viene mediata dai giardini chiusi. Credo sia questo il primo passo da fare per avere consapevolezza di un ambiente entro il quale svolgere una parte rilevante della propria vita; solo avendo coscienza dell’ambiente nel quale viviamo ne possiamo divenire partecipi e dunque, se di comunità si tratta, cittadini. O netizen.

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