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Della geometria della vita e di me che cammino

E’ che a volte c’è questa luce diversa. Una luce che è fatta apposta per pensare. Fatta apposta per incrociare qualcuno che avresti volentieri lasciato a marcire dentro un cassetto. Non quello dei sogni, no. Forse c’è stato un momento in cui avrebbe potuto starci. Ma poi, in quella specie di continuo cambio di stagione che è questa vita, l’hai spostata da qualche altra parte. E prima di oggi non avresti certamente pensato che quel cassetto che si è improvvisamente aperto da solo fosse proprio quello in cui avevi riposto qualcuno che avevi giurato di seppellire tra le cose dimenticate e scordate. Dimenticate e scordate, sì. Perché la mente dimentica, ma è il cuore che scorda.

Ed invece ecco che il sole di questo Dicembre che non sembra nemmeno arrivare Natale, che quasi fa caldo in questa città che è fatta di foglie gialle e di cielo così azzurro da dare fastidio, ti restituisce lo sguardo di una persona che non sai nemmeno dire cosa sia stato, ma è stata qualcosa e quel suo essere qualcosa ti piaceva e ti faceva del bene. Quando incroci quegli sguardi non sono i tuoi occhi a dirti quello che stai vedendo. E’ la memoria, il ricordo che parla, che guarda, che ascolta per te. E per quanto male tu possa aver ricevuto, o dato, per quanto distacco possa esserci stato, per un attimo, per un solo fottuto attimo ti torna in mente quel singolo momento in cui la vita è diventata rotonda.

Perché è troppo facile pensare a qualcosa che finisce, a qualcosa che è stato solo “qualcosa” e non è stato mai battezzato, come una specie di coacervo di negatività, di polvere da nascondere sotto il tappeto della solita ipocrisia da fine rapporto. No. Il momento della vita rotonda c’è stato. Il momento in cui tutto è stato perfetto. Il suo respiro che dava il tempo al tuo respiro, le sue risate nelle tue risate. Portarsi a casa l’uno gli occhi dell’altro. E in quel momento, quando incroci quello sguardo, quando rivedi per un attimo quel momento di vita rotonda, senti l’aria fermarsi all’altezza delle corde vocali ché vorresti parlare e dire, senza neanche esitare ché non ce ne sarebbe bisogno, “sai quella volta”. E ripartire.

Ho proseguito, calpestando le foglie e alzando lo sguardo verso il secchio d’azzurro sopra la testa. Poi ho sorriso immaginando che forse è stata lei a pensare al suo momento di vita rotonda. Perché tutti abbiamo vissuto quel momento lì. Tutti siamo stati la vita rotonda di qualcuno, il suo “tu sei perfetto per me”. Ed a questo penso mentre cammino con le mani in tasca, l’aria che sa d’inverno senza essere fredda, il fiume che scorre al solito modo e la vita che gira come gli pare. Ché lei sa di essere tonda.

Ho messo le mani in tasca, mi sono fermato ed ho respirato un momento. Mi sono girato e l’ho vista accanto al parapetto, lo sguardo fisso sul fiume. Poi ha guardato verso di me, come a dire “ti aspetto”. No, mi sono detto. Non è questa la strada. Questo non è più il momento della vita rotonda. E’ il momento di far quadrare le cose.

Di attese, mancanze, te e caffè

Aspetto. Aspetto come si aspetta il prossimo autobus. La vita che scorre a velocità diseguale. La testa che cerca conferme nell’orologio e poi perde l’orientamento sbattendo lo sguardo sui palazzoni di periferia. Mattine così, fatte di grigio. Il grigio degli abiti scuri, tessuti stretti nelle cravatte annodate attorno ai pensieri. Fatte di cieli indecisi e di tempi imperfetti.

Aspetto. Aspetto di sentire lo scatto della serratura. E distogliere finalmente lo sguardo dal tavolo dove unisco puntini fatti di briciole secche di pane. La porta che adesso si apre, la luce che filtra e disegna un perfetto angolo retto mentre il cardine ruota e lascia aperto lo spazio. Aspetto di sentire adesso il tuo odore che sovrasta arrogante quello ordinario del caffè del mattino. Aspetto di vederti sedere al tuo solito posto, col viso rivolto verso la tua amata finestra dove hai passato giornate infinite a soffiare pensieri. Ed hai trovato verità inaspettate dentro i vetri appannati.

Aspetto. Aspetto di poterti guardare. E ritrovare la forma dei tuoi fianchi e del tuo viso che adesso disegno, si lo so maldestramente!!, dentro il fumo un po denso del tuo non essere qui. Sono stanco di alzarmi al mattino e di trovarti lontana. Sono stanco di cercare nel fondo dei miei bicchieri una mappa che possa condurmi nel reame incantato di “tu dove sei”. Mi stringo le mani attorno alle spalle, quasi voglio abbracciarmi da solo. Ti guardo e mi immagino vederti arrivare, con quel passo marziale, sicuro. Quel rumore di tacchi che sembra riempire lo spazio, i tuoi gesti sereni, le tue mani che cercano il mondo tra rossetti e cartacce disperse dentro la borsa. Quel tuo gesto veloce, di occhiali levati dagli occhi con fare distratto, la stecca appoggiata su quelle tue labbra fottute mentre esplori i capelli con dita che sembrano intente a risalire correnti impetuose di ricci.

Sul fornello qualcuno borbotta, la domenica arriva quando la moka, si ho ancora quella gialla e nera che hai comprato tu, decide che il giorno é cominciato. Mi avvicino alla luce ed inizio a pensare. Potrei scrivere o disegnare. Suonare o dipingere. Ma resto fermo, respiro mancanze e attraverso la vita. Aspetto. Aspetto di capire cos’è questa storia che si chiama ritorno. E mentre, neanche fossi Penelope, guardo verso orizzonti lontani tessendo tele infinite, sorrido dei nostri ricordi. Ti cerco fra le pareti che rimandano l’eco dei miei “ti vorrei”.

Tornerai? Non lo so. Né lo sento, o lo spero o lo immagino. L’orologio per ora descrive i suoi cerchi. Io mi metto seduto e mi prendo il caffé.

Presente plurale (ovvero riflessioni veloci)

Lo sai? C’è una grammatica precisa nelle questioni di cuore. Tu puoi dire quel che ti pare. Ma devi stare attento e farti capire.

Chè pensi sia facile dire di te. Io sono, io credo, io penso. Autoreferenziale. E diventi il centro del mondo, o forse vorresti. Ma ti perdi qualcosa per strada e trascini in un angolo buio chi divide una storia con te.

Chè pensi sia facile parlare di me. Tu sei, tu credi, tu pensi. E sposti lontano da te quello che non funziona. Lo impacchetti ben bene e spedisci ad indirizzi diversi quello che a te non va di sentire. E un corriere che faccia questo lavoro per te esiste di già e declina il suo itinerario al ritmo dei “tu”. Ovunque, ma altrove da te.

Chè invece una storia di declina coi “noi”. E se la storia è fatta d’amore lo senti nelle parole. Parliamo. Andiamo. Sentiamo. Facciamo. Siamo. Amo. Continuamente. Il noi è il passaporto delle storie più vere.

Declinate cosi, al presente plurale.

La notte che il mondo fa il giro e la vita succede

La musica le rombava dentro le orecchie. Accordi potenti, di quelli che non ti dimentichi, ché ti prendono l’anima dentro le mani. E quei bassi, pieni di gravi, li senti che ti rimbombano dentro il petto. E risalgono poi insieme agli acuti come brividi che corrono sopra la pelle e centrano in pieno il pugno rosso del cuore. Teneva gli occhi ben chiusi e lasciava che il suono le riempisse la testa e le ossa.

La finestra era aperta. Il freddo entrava leggero, quasi chiedendo permesso. Fuori le colline viravano al nero notturno e la nebbia iniziava un poco a salire. C’era all’intorno un odore di calma apparente, un sapore di cose sospese nei loro condizionali. Un colpo di vento leggero attraversò con passo veloce la stanza. E passando accarezzò i libri sparsi sul tavolo, mosse le pagine che crepitarono quasi eccitate al suo tocco leggero. Poi si infranse contro le pareti, morendo infine in un impercettibile sbuffo di polvere sul pavimento. La luna era già alta nel cielo, vestita di una falce bianchissima, col solito codazzo di stelle vicine. Tutte disciplinate ed allineate meno quella spocchiosa e solitaria stella polare che aveva quel vizio bellissimo di brillare più delle altre.

Lei rimase seduta sulla poltrona di stoffa, con le braccia distese lungo i suoi fianchi dalle linee dolcissime. La sottoveste bianca fremeva sotto le carezze dell’aria notturna e le gambe, rosa di un rosa così naturale, un poco soffrivano l’abbraccio del freddo. Eppure rimase impassibile, la musica che le scuoteva i capelli castani. E quegli occhi, del colore dell’autunno appena finito, restavano chiusi come se volessero tenere chiuse dentro il fondo del cuore le note che le orecchie ascoltavano. La bocca stretta in un morso feroce sul labbro inferiore tradiva un’attesa spasmodica.

E quando arrivò quello che stava aspettando, le unghie si infilarono nella stoffa della poltrona. La testa, piena di quella cascata castana, si mosse verso la spalla destra, lasciando quella sinistra in una tensione muscolare perfetta, l’incavo del collo disegnato in punta di mina. Gli occhi le rotearono e finalmente una luce di lacrime le albeggiò dietro il colore brillante delle pupille. E lo vide. Lo vide mentre la stringeva forte al suo petto, le mani che le impedivano di articolare movimenti che non avrebbe comunque voluto compiere. E la bocca di lui lì vicino, vicino che respiravano l’uno dai polmoni dell’altro, vicino che l’aria che rimaneva sospesa tra gli occhi azzurri di lui e quelli marroni di lei avrebbe preso fuoco se avesse potuto. Vicino come i loro corpi avvolti l’uno nell’altro, di ombre che scivolavano lente l’una nell’altra mentre fuori il mondo faceva il suo giro e portava la vita a veder le vetrine. Ché tempo e spazio erano variabili inutili mentre lui le faceva forte l’amore e lei si sentiva di amarlo e volerlo e desiderarlo. E quella dannata canzone era il tappeto su cui stavano facendo l’amore.

Poi la puntina di diamante finì con lo scivolare nel vuoto e la musica morì nel silenzio. Si alzò dalla poltrona ancora in preda ad una specie di scossa nervosa. Il ricordo della notte appena trascorsa che le correva violento attraverso i nervi e sotto la patina diafana della pelle. Si strinse tra le braccia scoperte e si avvicinò alla finestra. Fece per chiudere i vetri e sorrise. Fuori la terra era diventata scura e invisibile. Solo la nebbia sbaffava i contorni disegnando sfumature grigiastre che lasciavano indovinare profili ed altezze. La luna resisteva nella sua falce biancastra e la sua corte di stelle obbediva ossequiante. Tutte meno quella maledetta stella polare che doveva per forza brillare da sola. Lei guardò quel punto luminosissimo e per un attimo quasi sembrò che la stella ricambiasse il suo sguardo. Sarebbe tornato. Si, sarebbe tornato.

Chiuse le finestre e tirò le tende di seta.

La notte, discreta, rimase di là del sipario mentre il mondo girava e la vita si provava un altro vestito.

I pugni chiusi, davanti alla faccia.

Io sono uno che cammina con i pugni chiusi davanti alla faccia. Perché di calci in bocca e di pugni allo stomaco ne ho presi. Forse ne ho dati, anche. Di sicuro non sono mai uscito dalle mie storie con le ossa tutte al solito posto. Scomposto, scassato, mischiato. Perché quando le cose finiscono ti senti così. Come un mazzo di carte buttato per aria, che non sai né come né dove finirai col cadere.

Io sono uno che cammina con i pugni chiusi davanti alla faccia. E da dietro le mani guardo quello che devo guardare. Perché gli occhi, questi occhi che vorrei saper sporcare di qualche bugia e colorare di un poco di falso, e non ci riesco e certe volte mi incazzo, questi occhi, dicevo, li tengo aperti. Ed a volte vedo cose che mi fanno paura. Ed allora li allargo come pozzanghere in cui far cadere la luna. A volte, invece, voglio solo capire. Ed allora li stringo, come fessure, come se stessi vedendo la vita che si spoglia attraverso il buco della serratura.

Io sono uno che cammina con i pugni chiusi davanti alla faccia. E tengo alta la guardia. E guardo dietro di me, ché tanto queste mani mi tengono al sicuro dal mondo. E vorrei guardarlo negli occhi il mondo in cui vivo. E poi dirgli che mi fa schifo. Dirgli che lo odio e che vorrei che sparisse e morisse e sprofondasse. E poi, dopo averglielo detto, farci l’amore. Perché non riesco ad averne abbastanza, perché non riesco a tenerlo lontano, perché tanto non lo so fare.

Io sono uno che cammina con i pugni chiusi davanti alla faccia. Perché qualcuno si potrebbe innamorare di me. E trovare la chiave per aprire il posto segreto che tengo nascosto dentro il buco più nero del cuore. Perché l’amore é la chiave che ti apre tutte le serrature e lascia entrare la luce nello spazio più sacro dell’anima. E ti sconvolge, ti rapisce, ti strappa le ossa dal petto e ti tiene nelle sue mani. E qualche volta ti culla ed altre ti stritola, come se volesse prima accarezzarti e poi soffocarti. E non puoi non amare l’amore. Non puoi non adorare il suo modo meraviglioso di rovinarti la vita.

Io sono uno che cammina con i pugni chiusi davanti alla faccia. Perché ho scelto la solitudine. Ho scelto di correre da solo. Ho scelto di non aprire le mani e di non lasciar intravedere lo sguardo. Ho scelto di non metterle dentro le mani di qualcun altro. Qualcuno che avrebbe potuto camminare con me, fare un pezzo di strada con me e magari amarmi davvero o essermi amico o chissà che altro. Ho scelto la strada del lupo che corre a perdifiato nel bosco, che sfugge alla notte, che ulula forte alla luna.

Io sono uno che cammina con i pugni chiusi davanti alla faccia. Perché della vita non ho mai capito un cazzo. E l’unica cosa che so fare é continuare. Continuare così.

E adesso vieni qui.

Stringimi forte.

E non te ne andare.

Le parole di lei

Io non so cosa si prova a stare senza di me. E potrei provare a chiedertelo, ma avrei paura di sentirmi rispondere “niente”. O “non lo so”. Il terrore di essere stata intangibile. Il terrore di non aver lasciato alcun segno. Sulla tua pelle. Sul tuo cuore. Il terrore di non essere stata.  Eppure non riesco a non chiedertelo. Perché tu sei la mia dannata voglia di sentirmi finalmente viva e cosciente di me.

Il silenzio e questa distanza. Abbiamo messo steccati lungo le strade che portavano a noi. E non abbiamo più voglia di oltrepassarli. Ora che sento che ogni cosa finisce, capisco che il desiderio che mi ha consumata non è stato quello di voler essere speciale. Ma di essere unica. Di averti per me e di essere per te. Unici. Che non lo siamo mai stati davvero. Che ti ho odiato fortissimo perché non riuscivo ad amarti abbastanza per esserlo. I miei perché ed i tuoi silenzi. Ed i miei sospiri, ora ed adesso. Rimbalzano fra le pareti e mi portano l’eco sempre più debole dei miei “ti vorrei”.

L’unica cosa che avrei voluto mentre mi hai guardata andar via era che dicessi il mio nome. E mi sarei fermata. Avrei guardato il mondo girare dentro le pozze di acqua piovana. Per un attimo. Quell’attimo in cui capisci che esiste quel po’ di possibile che così fortemente desideri. Avrei respirato profondamente e mi sarei lentamente girata verso di te. Il viso pieno di lacrime. Ma lacrime dolci. Lacrime di te che sei mio ed io sono tua. Lacrime del nostro essere noi. Lacrime che avrebbero detto soltanto le parole che la bocca avrebbe taciuto.

Ed invece mi hai lasciata camminare da sola. Su strade che davvero io non so riconoscere. A tentoni mi muovo nel mondo come chi ha perduto la luce. E mi sfugge il senso del nostro esser stati qualcosa. Che non so nemmeno dire che cosa. Ma qualcosa era di certo. Qualcosa mi sentivo di essere. E quel qualcosa avevo imparato ad amarlo. Ora invece mi abbraccio da sola di notte, mentre guardo la luna e mi chiedo perché di tutte le stelle la più bella sia quella che splende da sola, lì in alto. Mi chiedo perché questa solitudine ingrata e mai chiesta mi abbia bussato alla porta. E mi torna alla mente il tuo sguardo fisso lontano. Oltre il mio sguardo, la mia spalla destra. Mentre invano ho cercato di entrare nello spazio remoto di quei tuoi dannati occhi azzurri. Perché avevi deciso, lo so. Perché avevi già stabilito percorsi che seguivano linee soltanto diritte e mai curve. Le tue, attraverso le mie.

Ora sto qui, tra queste mura che dovrebbero essermi amiche ed invece mi restituiscono l’eco di risate e di baci, di grida d’amore e di rabbia, di te che non torni, di me che rimango, ora, dicevo, vivo questo spazio che appare infinito e che invece mi opprime e mi toglie il respiro. La solitudine è una libertà non richiesta, ottenuta senza lottare. Non c’è premio in questa ritrovata indipendenza. Che davvero non ho desiderato e che invece, ancora una volta, tu, che hai sempre deciso per noi, mi hai imposta. E mi costringi a barricarmi dietro il mio fottuto rancore. Ché davvero ti odio pur non potendo non continuare ad amarti.

Vai dunque per la tua strada, se credi. Non ho chiesto che mi seguissi. Né io ti seguirò. Avrei solo voluto continuare a camminarti vicino. A farti l’amore guardandoti dritto negli occhi, a farti del bene sfiorandoti il viso, a parlare con i tuoi silenzi infiniti, a giocare con quel tuo essere a volte iracondo, rabbioso. A placare il tuo desiderio di pace. I miei giorni continueranno. Indugeranno sull’orlo del desiderio continuo di te. Sulla quella voglia dannata che ho di essere una delle tue maledette parole. Quella voglia di morire sulle tue labbra ancora una volta. Ed ancora. Ed ancora. Finché non fosse diventato per sempre.

La favola di Uto e di Pia

Voglio raccontarti una storia. Una storia che comincia ogni volta che piove. Ed ogni volta che piove puoi vederla accadere. Appoggia gli occhi alla finestra ed osserva. Mente appanni il vetro con pensieri e parole, le gocce di pioggia intrecciano i loro destini, precipitando verso il tuo davanzale. E ti sorprenderai vedendo la strada tortuosa che fanno, fatta di percorsi impossibili.

Questa storia parla di due gocce di pioggia. Una parte dall’angolo in alto a destra. E l’altra dall’angolo in alto a sinistra. Sono arrivate insieme, credo. Sospinte dal vento fortissimo che sta tirando questa mattina. L’aria, che a volte sembra vorticare di impeti gelidi, le ha buttate sulla finestra, come naufraghi sballottati dal mare e poi depositati senza riguardo sulla prima spiaggia possibile. Sono li, ferme, ognuna dentro il suo angolo. E stanno così attaccate con tutta la forza che possono al loro lembo di vetro.

E si guardano, non troppo lontane. Si sorridono e forse si piacciono. Pia, la goccia in alto a sinistra, é bella e rotonda. Ha un cuore di acqua brillante, pulita. Se ti fermi a guardarla puoi vederci attraverso il mondo di là. E quasi potresti pensare che il mondo di là sia lui pure brillante e pulito. Uto é una goccia sottile, più lunga che larga, sembra quasi una striscia di acqua sottile, una fessura per monetine. È arrivato sospinto dal vento ed ha perso la sua forma rotonda. Si sorridono e forse si piacciono. E Uto arrossisce. E Pia si innamora.

Un colpo di vento, di quelli fortissimi, il cielo che ulula. Grigio un po’ dappertutto. La finestra su cui appoggi le mani trema senza che tu te ne accorga. E mentre tu continui a cercare il futuro dall’altra parte del vetro, le gocce iniziano a scivolare. Pia spalanca la bocca terrorizzata. Sente le forze abbandonarla. Cerca Uto con gli occhi e lo vede, ancora attaccato al suo angolo buio. Lui la scorge mentre il vento colpisce. E decide di abbandonare il suo piccolo nido. E così inizia a scivolare, disegnando linee spezzate per cercare di prendere la mano di Pia, tremante nello sforzo di rimanere attaccata al vetro freddissimo.

Il vento si fa più insistente, il freddo aumenta e l’aria porta la voce di luoghi lontani. Ma ecco. Uto è arrivato vicino e tende la mano. Pia gli sorride, lo tocca. Felice di averlo vicino lo tira verso di sé e vorrebbe baciarlo. Lui timido un pò si schernisce nella sua forma allungata e la guarda mentre continua a disegnare linee infinite con la sua coda di acqua quasi ghiacciata. Poi si accosta alle forme rotonde di lei e vorrebbe perdersi nella sua luce brillante. E sono viciini, vicini che forse finalmente la bacia e vissero felici e cnontenti. Ma ecco di nuovo quel vento violento. E le gocce tremano ancora e precipitano rapide verso il davanzale.

Uto! lo chiama, il suo è un grido muto, fatto di solo tremore. Uto! la voce si perde dentro il grido pauroso del vento. Lui scivola rapido tra le gocce che cadono, punto lontano fra linee irregolari ed infinite. Lo guarda cadere e decide di abbandonare la presa. Ed insegue la traccia sottile della striscia di lui. Precipita verso il davanzale gridando il nome di lui. Rimangono fermi davanti al bordo bianco del marmo a guardarsi ancora una volta. Poi il vento urla di nuovo. E loro cadono giù.

Questa è la storia che vedi ogni volta che ti fermi a guardare la pioggia. Mentre cerchi il futuro dall’altra parte del vetro, ogni tanto pensa alle gocce che vedi. Ti racconteranno una storia bellissima, una storia di cose improbabili. L’amore impossibile di Uto e di Pia.

La notte porta consiglio

La notte a Roma succedono cose strane davvero. La più strana che ti può capitare è sentire il silenzio. Perché Roma è una città che fa rumore e che ti fa rumore dentro. E ti incazzi e ti innamori e studi e lavori. E lei ti fa rumore, dentro. Poi la notte arriva questo silenzio che ha il sapore della pace a cui non sei più abituato. Ti senti perduto, smarrito, ti guardi un po’ intorno pensando al silenzio come a qualche mostro da incubo.

E il silenzio ti porta, per esempio, il rumore dei passi delle persone. A Roma non è così facile sentire il rumore delle suole sopra l’asfalto. Ma la notte, se ti fermi un momento a rispettare la pace che hai intorno ed azzitti un secondo i pensieri, li senti arrivare. Sono passi, di uomo o di donna, e vanno lenti o veloci. E piano piano acquisti dimestichezza e capisci se calpestano l’asfalto del marciapiede o il marmo delle soglie dei portoni. Ed inizi a scrivere storie dentro la notte, fatte di incontri, di amori, di sguardi fugaci, di vita che accade.

Perché la notte in fondo é così. Un vuoto da riempire di cose. Di suoni o di sogni. Di persone, vere o inventate. Perché la notte alla fine si resta da soli. E il silenzio, il silenzio di Roma, quello pesante della città addormentata, lo senti fortissimo. Il sangue che pulsa dentro le tempie e i passi sconosciuti di qualcuno là fuori. Quella è la voce del silenzio di Roma. Da soli, dentro la notte, smarriti nei sogni. Oppure svegli con mille domande. Perché la notte si parla. Si parla da soli, dentro il silenzio, in fondo, nel profondo del cuore, mentre il sangue fa sempre il solito giro e fa suonare il silenzio dentro le tempie.

La notte di Roma ti insegna la solitudine. Non quella depressa e sconfitta di certe scelte eremitiche che sanno di estremo. Ma quella consapevole e serena fatta di volontà di se stessi. Quella delle domande, anche senza risposta. Quelle in cui pensi a qualcuno che ti manca davvero ed a quanto davvero lo vorresti con te in quel momento. E magari dorme a un centimetro da dove sei tu o a mille chilometri a est. E davvero non conta, perché a volte i centimetri separano più dei chilometri se le anime sono lontane. Così, sospesi in questa specie di catalessi, pensiamo al suono delle parole. Le scopriamo più o meno rotonde, ne cerchiamo gli spigoli, ne sentiamo la punta acuminata e ci inganniamo a pensare che il fastidio che danno sia invece la peperonata di mamma che corre verso l’ignoto. Pensiamo alle voci, pensiamo alle mani, pensiamo agli occhi che vorremmo tenerci attaccati alla pelle ed al cuore.

Pensiamo ai nostri vorrei. Ai “ti vorrei”. Pensiamo ai “sarei”, ai “potrei”. Desideriamo al condizionale. Perché per comprare il futuro dobbiamo prendere in prestito il presente che abbiamo e metterci un’ipoteca fatta di condizionali. E alla fine, non ce ne curiamo poi tanto, torniamo bambini e ci diciamo qualcosa che suona come “facciamo che ero”. Ecco. Presente imperfetto. Perché sarà vero che questa storia che la notte porta consiglio è una stronzata, ma la notte spesso ci azzecca. E se non altro gioca a carte scoperte.

La notte a Roma succedono cose strane.

Succede che per non pensarti, penso ‘ste cose.

Poi smetto. Giuro che smetto.

Claudia, un qualunque giorno di Roma

Ci sono mattine in questa città che ti sembra di vivere in un gigantesco paese. Anzi, ci sono mattine che Roma sembra un cumulo di tanti paeselli diversi, uno accanto all’altro. Ognuno con la sua piazza, le sue campane, le sue vecchie sull’uscio o alle finestre. I panni stesi, da un civico all’altro. E quei maledetti gerani, che le vecchie sull’uscio altri fiori non ne vogliono mettere. E ancora i bar di quartiere, che hanno tutti la stessa serranda. E la stessa insegna, di neon anni settanta. E se questo davvero fosse un paese, e forse lo è, in quei bar ci troveresti di certo il parroco e il maresciallo.

Quando Claudia si alzò dal letto si avvicinò alla finestra. Il giorno era bello di un sole pieno ma freddo. E lei quasi spavalda, orgogliosa nei suoi occhi verdissimi, aprì la finestra con quel gesto quasi liberatorio che apre il petto alla luce del giorno. L’aria gelata si posò, per nulla gentile, sulle guance ancora rosse di letto. Il tocco del gelo la costrinse un poco a contrarre lo sguardo. Rimase così, per nulla convinta alla resa ed anzi un poco incitata dal calorifero ancora un po’ tiepido al quale teneva accostate le gambe. Quando ebbe respirato in pieno l’odore di legna bruciata di certe mattine romane, abbassò lo sguardo sulla città ancora assopita e, guardando la vita succedere, pensò quello che stava pensando. Roma è una specie di grande paese.

Lasciò aperta quella finestra a disperdere l’odore della notte appena trascorsa. Con le spalle alla luce guardò verso il letto ancora disfatto. Ed accanto al cuscino su cui aveva poggiato la testa riconobbe la forma di quella del lui con cui aveva diviso la notte. E sorrise, ripensando all’amore, ed ai baci, ed alla forma degli occhi azzurri di lui. Al suo perdersi tra le sue braccia mentre fuori la notte iniziava. Sorrise di nuovo. Sorrise di quel sorriso che fanno certi gatti, i gatti di Roma!!, che talvolta sembrano stare per dirti quale sia l’inganno alla base del mondo; poi si voltano, padroni di sé e di quello che hanno, e ti lasciano immerso nei tuoi punti interrogativi. Claudia aveva quel sorriso sornione, un po’ divertito mentre coi denti massacrava di morsi leggeri il dorso del medio della mano sinistra.

E lo vide. Lo vide di nuovo che dormiva nel letto con lei. Ne vide il respiro quasi affranto dopo l’amore. Ne rivide le linee del corpo, regolari eppure accoglienti, con i fianchi un po’ femminili che lei amava toccare. Era lì accanto a lei, in un sonno ristoratore, di passione appagata, di sensi oramai soddisfatti. Di lei che sentiva di amarlo e che forse sapeva, intuiva, voleva che l’amasse anche lui. Si trovò nuovamente nel letto, con la mano a tenersi la testa e le gambe, di pelle bianchissima, a ciondoloni nel vuoto. E così immaginava di averlo con sé e sognava che quell’ultimo bacio, scambiato nel mentre il sole arrivava, fosse solo il primo di quella giornata e non l’ultimo della sua vita.

Dalla finestra entrava il rumore di una città risvegliata. Il ronzare indiscreto dei motorini e le voci delle vecchie sull’uscio o alle finestre, che sempre avrebbero avuto qualcosa da dire. Percepì distintamente l’odore dei loro maledetti gerani. Ma non se ne ebbe poi a male e quasi sfiorò l’incauto pensiero di volerne per sé. Le serrande dei bar, già alzate da un pezzo, restavano pigramente appoggiate in una sorta di omaggio a mezz’asta alla memoria della fatica e del lavoro, tragicamente scomparsi. Perché Roma è così, indolente e bellissima. Come le sue vecchie sull’uscio o alle finestre, i suoi gatti arroganti, i suoi parroci e i suoi marescialli.

Mentre la vita accadeva, Claudia andò a preparare il caffè. E l’odore del giorno prese infine la sua consistenza. Ed il colore, quel nero bruciato e fumoso, era quello dei mattini migliori. Sul tavolo briciole sparse, da ricomporre in pensieri ed idee e progetti ed un po’ di possibile. A questo pensava ed a questo credeva ora che dentro sentiva che quella era una storia davvero importante. E lo sentiva come sentiva ancora il vigore di lui ed il profumo della sua pelle, e dei loro capelli, del loro biondo così familiare e comune.

Con la tazza fumante si avvicinò alla finestra. E dall’altra parte del vetro una di quelle vecchie che stanno sempre sull’uscio o alla finestra, le sorrise da dietro quei maledetti gerani. E poi, con occhi celesti, ruspanti e vitali, le disse “a signorì, come state?”; e Claudia lasciò che gli occhi e la bocca ridessero insieme, di quella risata che lei riservava ai momenti più belli, fragorosa ed insieme discreta. Non rispose, ma la vecchia capì e sorrise di nuovo e lasciò i suoi gerani a prendere freddo ed i panni a prendere il sole.

Roma è così, un specie di accrocco di tanti paesi. Di storie lasciate nelle fessure delle sue mura, sempre antiche e vissute. Di voci che si rincorrono, di cani incazzosi che abbaiano a gatti orgogliosi, di pane che lo sai che è appena uscito dal forno perché ne riconosci l’odore fragrante, di giornalai che sanno di tutto e di barbieri e portiere che sanno di tutti.

Roma è cosi. A questo pensava Claudia bevendo il caffè. Pensava che l’amore è bellissimo. Pensava di volerne di più.

Stravaganti conclusioni

Il punto è che sono troppi.

Sono troppi i miei vorrei e non so scegliere fra quelli acerbi, quelli maturi e quelli davvero andati a male. Perché ci sono desideri freschissimi al banco dei sogni ed a volte non li so riconoscere.

Sono troppi i miei no e questi, invece, li dovrei scegliere con cura. Guardarli, pesarli, considerarli. Vedere se l’occhio che hanno è ancora luminoso. Perché se l’occhio è ancora luminoso, vuol dire che è un “no” bello e buono, di quelli che si sentono, che ti riempiono la bocca, il cuore e l’anima. Altrimenti li devo scartare e pensare che un “forse” possa aprire qualche possibilità in più.

Sono troppi i miei perché. E non è che sia colpa mia. E’ che la ragione mi impone domande che l’intuito non sa soddisfare. Ed allora arrovella quesiti, sgrana punti interrogativi e pone condizioni e “se” e “ma ” e “però”. E le domande mi portano lontano dove di sicuro hanno nuove compagne ma nessuna risposta.

Sono troppi i miei capelli.

Sono troppi i miei “ti amo”. Troppo grandi. Troppo più grandi di me. Troppo grandi per me. E le parole che uso non sono in grado di fare barriera, non sanno arginare. Perché l’amore ti sfonda la porta del cuore senza citofonare.

Sono troppi i miei “ancora”. Che davvero non riesco ad essere sazio.

Ma poi in fondo, chissenefrega.