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Made in CalTech

Howard Wolowitz

Quando ero al liceo non vedevo l’ora di arrivare all’ultimo anno. E non solo perché avrei finalmente chiuso il periodo della scuola per andare all’università, ma perché, finalmente, avrei potuto la materia che invidiavo davvero a quelli del quinto anno: geografia astronomica. Di più, speravo e pregavo che uscisse come materia all’esame di maturità; no, dico: ma vi immaginate che coppia geografia astronomica e filosofia? o latino e geografia astronomica? Credo che avrei fatto scintille totali. Ovviamente sono uscite latino ed italiano.

Nonostante questo ho sempre avuto un certo interesse per le cose dello spazio. Ho avuto un telescopio, ho speso quasi venti euro su AppStore per le varie applicazioni di astronomia. Tutto questo perché ho sempre avuto la fissa della fantascienza, dei viaggi spaziali, di Star Wars e di Star Trek. Così l’altra mattina non ho potuto non seguire in diretta lo sbarco di Curiosity su Marte. Su Marte. Non sulla Luna. Su Marte. Certo, c’erano state un altro paio di sonde prima che hanno portato altrettanti rover sulla superficie del Pianeta Rosso. Ma stavolta andiamo a cercare la possibilità concreta che Marte possa avere ospitato la vita o possa ospitarla in futuro. Ed è questa la cosa più fica. E’ chiaro che nessuno si aspetta che spunti fuori un alieno con le antenne dritte e superintelligente; ma il fatto che la scienza abbia seguito la fantascienza ed abbia scelto Marte come possibile pianeta gemello della Terra mi piace per il solo fatto che sia accaduto. Poi magari non troviamo una mazza. Però è come se insieme a quel rover ci fossimo tutti noi a cercare di capire il nostro passato ed a cercare di intravedere il futuro.

Ha ragione Matteo Bordone che ha twittato un paio di foto della sala controllo del Jet Propulsion Laboratory dicendo che facevano molto “Apollo 13”. I tipi del JPL sono spettacolari: potresti incontrarli in qualche fumetteria a parlare di supereroi oppure a giocare a Dungeons and Dragons o magari a disquisire di sistemi operativi o cose del genere. Cose del genere geek. E torniamo sempre allo stesso punto, il mondo è di questi tipi qui. E forse è anche un pò mio che penso di essere simile a loro. Non come loro, ma simile.

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La questione del popolo della rete, ovvero: chi ha fatto palo?!?!

 

Qualche tempo fa ho fatto un re-posting di un articolo di Alfonso Fuggetta a proposito della questione della possibile identificazione di un potenziale popolo della rete. La conclusione: il popolo della rete non esiste. Oggi ritrovo la stessa considerazione su Nova24 in un articolo di Luca Tremolada. Stessa conclusione: il popolo della rete non esiste.

Mi chiedo se abbia senso anche soltanto porsi la domanda. In fin dei conti basta guardare alla propria storia per capire se questa domanda abbia una qualche possibilità di essere considerata o se debba, invece, cadere nel dimenticatoio e sparire per sempre. Comincio dalla fine: il popolo della rete esiste. Il punto è: chi può dirsi appartenente a questa etichetta, sempre che sia logico al giorno d’oggi voler aderire ad una etichetta sociale o meno, e chi no. Tiro fuori un po’ d’orgoglio geek e provo a spiegarmi.

Mi piacerebbe sapere chi, fra coloro che leggono queste righe, ha mai frequentato la BBS di McLink. Per me quello è stato il primo luogo di partecipazione alla vita della rete, ed è successo circa ventidue anni fa. La scoperta di un mondo dove non dovevo presentarmi per essere accettato ha riempito la mia giornata e la mia vita. E mi ha consentito di condividere certe passioni con altre persone simili a me. La linea guida non è mai stata rappresentata dall’essere un fanboy, un adoratore di un marchio od un fanatico di qualche azienda. Non me ne è mai fregato nulla di Microsoft, di Apple, di Sony, di Commodore o di chi sa cos’altro abbia animato la mia esistenza nel periodo che va dai 13 anni ad….adesso. Il punto è che condividevo, e condivido, grazie alla rete qualcosa di me che potevo facilmente ritrovare in altri. In questo senso, esisteva un popolo della rete. Così come esistevano gli hobbit nella Contea di Tolkien, evidentemente esisteva anche un little people nelle BBS, ancora simil-pirata dell’inizio degli anni novanta.

Poi è accaduto che sono arrivate altre cose; si è voluto vedere nella rete uno strumento di affermazione sociale, politica, una piattaforma di rivendicazione. Ed in fin dei conti non c’è nulla di male, anzi c’è probabilmente un fondo di verità. Tuttavia è come se avessero strappato qualcosa dal cuore di qualcuno, come se avessero allontanato un figlio dalla propria famiglia. La massificazione di internet, perpetrata a colpi di smartphone, di tablet e di tanti altri gadget ha reso il popolo della rete l’emulo del terzo millennio dei rincoglioniti da poltrona con il telecomando in mano, il frittatone di cipolle (per il quale vanno matti…citazione!), la famigliare di Peroni ed il rutto libero davanti all’Italia – Inghilterra di turno. Ci ha pensato Facebook, un po’ meno Twitter; ci hanno pensato le app ed Apple; ha provato a pensarci Microsoft, che comunque non ne ha beccata una finora. Massificare. Ma chi, oggi, può dire di capire qualcosa di quello che si trova a vedersi passare davanti agli occhi in rete? Diciamo dell’iPad che è un ottimo strumento per la fruizione di contenuti ma che altrettanto non si può dire dell’iPad come strumento per produrre contenuti. Io dico che la differenza tra produrre e fruire è la stessa che passa tra volontà di fare ed assopimento passivo. Se ancora esiste un popolo della rete, questo non accade perché esiste un movimento di opinione. E’ molto comodo trovare un club già esistente e volerne fare parte. E’ diverso dover fondare un club e trovare qualcuno che ci si iscriva. Ma quando questo accade non c’è bisogno di intellettuali che amino le storie e le persone che cambiano il mondo, non c’è bisogno di Wired e non c’è bisogno di Apple, né di Microsoft, né di nessun altro. E questo accade per la sola ragione che cambiare il mondo è insito nelle possibilità di chi ha visto la rete nascere.

Dunque esistono due popoli della rete. Ci sono quelli che hanno trasformato la rete nell’immondezzaio  che è diventato. E non sto parlando di pedopornografia, stalking o similia. Queste sono deviazioni che fanno schifo a prescindere. Sto parlando di Facebook, per il quale si grida ad un miracolo senza senso; o, per essere più esatti, ad un miracolo che ha perso di senso nel momento in cui si è trasformato nell’insipido ammasso di ovvietà che è oggi. Amicizie che non servono e notizie di cui si fa volentieri a meno. Innovazione zero. Compressione dello spazio di espressione: tendente a infinito. Twitter ha ancora delle potenzialità, ma non si deve scambiare la capacità di rappresentare uno strumento di comunicazione di grande flessibilità in un clone di Novella 2000 grazie al quale seguire le peripezie del vip di turno che, se non avesse uno smartphone, non saprebbe neanche trovare la porta del cesso.

Io credo che si debba riscoprire, per quelli che lo sentono, per quelli che ce l’hanno, il proprio orgoglio. Geek, nerd, dork, o chissà come altro lo si voglia definire. Basta ritrovarlo e riscoprire il gusto di essere stati dei precursori. La rete, internet, appartiene a questa gente, è questa gente che ha fatto internet. E sarebbe ora di affrancarsi dalle convenzioni sociali che, come dice il Dr. Sheldon Cooper, sono stupide. Penso alla pagina di tecnologia di Repubblica del sabato; una sorta di Cioè del terzo millennio pieno di ovvietà dedicato ad un pubblico ovvio con esigenze precostituite e dunque ovvie. Penso agli speciali sulle start up, alla questione degli open data; argomenti che passano come la panacea di tutti i mali per la banale ragione che sono argomenti caldi ma di cui non frega nulla all’italiano medio, a quello che il Galaxy S III se lo compra perché è fico e se lo fa configurare dal tizietto del negozio della Vodafone. Poi, sapere che permette di fare certe cose piuttosto che altre, che ha un sistema operativo piuttosto che un altro, è del tutto irrilevante; per il primate tecnologico andrebbe bene anche il telefono con la ghiera, basta che sia fico.

Questo è il popolo della rete oggi. Da qui, con la speranza che qualcuno prima o poi ascolti questo messaggio (mi sento un po’ come il disco dorato che, ancora oggi, viaggia da qualche parte nel cosmo con la Voyager II sperando di incontrare intelligenze aliene), chiamo a raccolta quelli che invece sanno di essere il vero popolo della rete. Mi piacerebbe riportare la rete a quello che era qualche tempo fa. Con qualche aggiustamento, certo.

Ma elitaria, cazzo. Dannatamente elitaria.

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Il bosone di Higgs

Sheldon Cooper

Questa cosa del Bosone di Higgs, o come si scriva non lo so, sta cominciando a creare alcuni seri problemi. Mi sta venendo una crisi mistica. Questa faccenda della particella di Dio, che aggrega gli atomi e rende possibile la formazione della materia, che rende possibile quello che vedo, allo stesso tempo mi affascina e mi spaventa. Credo che sia quello che accade quando le tue certezze vengono messe in discussione. O quando il sistema di regole che ti è stato inculcato viene sovvertito. O, banalmente, quando ti rendi conto che succede qualcosa che sconvolge i tuoi sistemi di riferimento e ti lascia inerme davanti a quello che accade. Quel che c’è di affascinante è probabilmente proprio questo.

Sta di fatto che mentre leggevo le notizie e gli approfondimenti su questa vicenda, ho pensato prima a mio figlio e poi a Sheldon Cooper. E mi sono commosso, pensando, sperando, che domani possano coincidere e possano dire di avere scoperto qualcosa che cambia il senso della vita e spiega la natura delle cose.

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Bazinga!

 

Stavo sfogliando il programma del Festival del Cinema di Roma. C’è un film di Morgan Spurlock che vorrei andare a vedere. Morgan Spurlock è una specie di Michael Moore che ha girato ed interpretato “SuperSize Me”. Il nuovo film si intitola Comic-Con Episode IV: A Fan’s Hope e parla di geekdom, di nerditudini varie, di cosplay e di tanto altro ancora. Non è un film generazionale, questo è certo. Ma racconta qualcosa di una (sub)cultura alla quale, personalmente, mi sento di appartenere. Del resto, io sono uno di quelli che guarda The Big Bang Theory, sono uno di quelli che ogni mese guarda avidamente la carta di credito pensando a come far quadrare il bilancio familiare con l’acquisto del box BluRay di Star Wars, sono uno di quelli che potrebbe anche tappezzare il proprio ufficio di action figure varie, etc. Se ora mia madre legge questo post, si mette a ridere e comincia con la storia della sindrome di Peter Pan.

Sto pensando che la sindrome di Peter Pan sia qualcosa che fa molto comodo e che appaghi il desiderio di affibbiare un’etichetta a tutto; è una sorta di codice a barre che fischia ogni qual volta passiamo accanto ad un lettore e dà tutte le informazioni utili sul nostro perché e sul nostro percome. Per parte mia continuo a pensare che ci siano degli aspetti della cultura alla quale sento di appartenere che possono apparire, come in effetti sono, infantili e sciocchi. E tuttavia mantengono quella sorta di aurea ingenuità che, senza scomodare il fanciullino pascoliano (che, per inciso, mi cammina coi tacchi sugli zebedei), mi rende in qualche modo più impermeabile a certe schifezze, a certe rigidità delle vita, per quanto inevitabilmente consapevole della loro esistenza. Insomma, non è che non voglio crescere, né voglio rimanere giovane per sempre. Non sono così stupido. Ma gli interessi che coltivo, le passioni che mi prendono, la cultura che condivido, mi fanno sentire vivo e danno una dimensione precisa al mio “me”. Che non è, e non può essere, quello fatto di vestiti e cravatte; se mi mettessi un costume da Capitan America, a patto di averne il fisico, potrei essere molto più facilmente me di quanto avvenga normalmente la mattina davanti allo specchio del bagno mentre cerco un modo diverso di annodarmi la cravatta.

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Sono un fottuto elitario

Riccardo Luna non è più il direttore di Wired. Al suo posto Carlo Antonelli, direttore di Rolling Stone. L’editore sostiene che il cambio di manico è dovuto ai crescenti impegni di Luna, attivo più che mai nella battaglia per l’innovazione in Italia. E poi c’è una precisa volontà di estendere il campo di esistenza di Wired, acquisendo nuovi lettori. Ecco, vende poco. E deve sputtanarsi, massificarsi. E quindi, come per magia, il mio abbonamento inizia a vacillare.

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