Lettera a quelli della mia età

Io un pò di paura ce l’ho. Non ho paura del futuro. Ho paura del presente. Siamo in difficoltà, questo è evidente. E la difficoltà aumenta proporzionalmente al nostro immobilismo ed all’incapacità di trovare adeguati strumenti per cercare di contrastare una marea che sta inesorabilmente salendo e rischia di sommergere tutto. Non esistono risposte, esistono solo domande; le quali, per loro stessa natura, sono inevitabilmente destinate a generare ulteriori difficoltà, piene, come in vero sono, di distinguo, di sottigliezze, di “ma”, di “se” e di “però”. Volendo da combinare fra loro. Il cocktail che esce da questo shaker e che siamo chiamati a bere, come fosse un amaro calice, è fatto di disillusione e di delusione. Perché il primo vero effetto di una crisi economica è sempre l’amara ed inevitabile contrazione dei sogni e dei desideri del singolo; in breve, la crisi economica annulla l’ansia positiva del futuro e trasforma l’aspettativa, che è figlia dell’ambizione, in speranza, che è parente della rassegnazione.

In Rete si possono trovare, come al solito, tonnellate di informazioni, tabelle, grafici, pareri e consigli, in materia di gestione della crisi. Ma quello che oggi quasi nessuno dice, anche se la cosa tocca ciascuno di noi nel quotidiano, è che la crisi finanziaria è passata, ma quella vera, quella economica, deve ancora arrivare, o, posto che sia arrivata, deve ancora spiegare appieno i propri effetti. Gli americani usano una bella espressione: la crisi finanziaria, quella dei Mercati, quella dell’iperuranio delle Borse, è la crisi di Wall Street; la crisi economica, quella dei Debiti, quella che tocca le buste paga e che contrae il potere di acquisto al di là del valore intrinseco della moneta e relative fluttuazioni, è la crisi di Main Street.  E siccome io vivo a Main Street, mi viene da farmi qualche domanda. Mi domando, ad esempio, se quel che oggi accade nelle strade di Roma o di altre importanti città universitarie sia davvero così intimamente connesso con la Riforma Gelmini in discussione al Parlamento. Mi chiedo se, piuttosto, l’agitazione degli studenti ed il loro scendere in strada in modi e con strumenti che ad alcuni hanno ricordato altri eventi ed altri anni, non sia invece fondata sull’assenza generalizzata di una qualche prospettiva. Ho netta, nettissima, la sensazione che la protesta di questi giorni sia un moto di ribellione nei confronti di una condizione, sia una sorta di colpo di coda da sferrare contro la paura del presente. Se si leggono le dichiarazioni di alcuni dei ragazzi che sono scesi in piazza, si possono intravedere le solite vecchie sorelle: Retorica, Demagogia, Ovvietà, e, in alcuni casi, Banalità. Eppure, mettendo insieme i pezzi del puzzle, si ottiene un quadro diverso da cui emerge a chiare tinte la solita cara vecchia Paura.

Solo che, questa volta, non si può aver paura del futuro. Le generazioni che ci hanno preceduto ci hanno trasmesso il senso della fede. Che non è quella religiosa, nè tantomeno quella sportiva. E’ quella che gli americani (ancora loro!) chiamano “faith”. E’ una questione di fiducia. E’ un patto. Un patto che stringiamo con le generazioni che ci hanno preceduti, convinti che il loro sacrificio quotidiano, che genericamente definiremo lavoro, contribuirà a creare migliori condizioni di vita per le nuove generazioni, al punto da consentire a queste ultime di ottenere remunerazione per se stesse e per poter onorare quel sacrificio quotidiano, processo che definiremo, sempre genericamente, pensione. Oggi, molto banalmente, tutto questo non può più essere. Perché non ve ne sono le condizioni. E, per quanto strano e sconvolgente possa essere, è alquanto amareggiante. Perché vi era in questa idea del passaggio di testimone tra noi ed i nostri padri, una qualche forme di trasmissione di responsabilità; che non era quella, o meglio: non solo quella, di gestire il futuro e di governare il cambiamento, ché il tempo passa; erano, semplicemente, i sogni di qualcun altro che diventavano i nostri. Sogni che sono diventati prima aspettative e poi speranze: stabilità, possibilità di crescita, opportunità di realizzare il proprio progetto di vita. Se si leggono le dichiarazioni di questi ragazzi, se si cerca di vedere al di là degli slogan, io credo che si debba vedere la profonda tristezza di dover vedere morire tutto questo. Ed è una sensazione spaesante: perché le nostre generazioni, la mia e quella di questi ragazzi, sono le generazioni che hanno imparato a crescere senza sogni e senza aspettative, sono le prime che sono cresciute imparando a sperare.

Mio padre è nato durante la seconda guerra mondiale. Quando la guerra è finita, aveva tre anni. Qualche anno dopo è arrivato il boom. Ed i sogni hanno trottato, perché c’era la possibilità di realizzarli. Noi non abbiamo combattuto battaglie e non abbiamo visto guerre. Non in casa nostra. Non abbiamo potuto azzerare il contachilometri, abbiamo dovuto imparare a camminare ad un ritmo che non era il nostro, ed abbiamo fatto nostre le attese di altri, congelando le nostre vite nella ricerca di un posto fisso che potesse essere il viatico per riuscire a prendere in mano le nostre vite. Chi è riuscito nell’impresa può essere considerato, di fatto, un eletto. Ma il prezzo che tutti noi abbiamo pagato per riuscire è rappresentato dal numero indubbiamente enorme di coloro che sono rimasti indietro e non ce l’hanno fatta o, se ci sono riusciti, sono fra “color che son sospesi”. Precari, vittime di un mercato del lavoro che nel creare flessibilità non genera alcuna forma di cultura della mobilità, che pure i fautori delle riforme hanno sbandierato in continuazione. Se parlassi di disoccupazione frizionale, che è stato per lungo tempo un fenomeno tipico delle società americana e britannica, qualcuno, anche fra i soloni che frequentano i buoni salotti, potrebbe mettersi a ridere. O magari pensare ad un deodorante per ascelle od una lozione. Ma la mobilità del mercato del lavoro, l’elasticità mentale e la cultura che ne derivano, formano l’idea di futuro di una generazione e la concezione della fiducia che ne deriva.

Ecco perché questa che stiamo vivendo è una crisi di fiducia. E’ tale perché abbiamo perso il contatto con la generazione che ci ha preceduto. Ed è tale perché non abbiamo avuto strumenti per leggere in tempo quello che stava accadendo. Ci siamo persi per strada il futuro e dobbiamo, per necessità accontentarci del presente: cionondimeno abbiamo una grande responsabilità che è quella di far ripartire la macchina. La politica non considera i trentenni/quarantenni; non ritiene che queste fasce di popolo, che sono quelle toccate in buona parte da alcune considerazioni di questo lungo post, siano diverse da altre, tutte accomunate dalla necessità di essere menzionate, loro ed i loro problemi, per poterle trasformare in voti. Allora vediamo di cambiare rotta: aggreghiamoci, creiamo strutture alternative, scegliamo i leader che riteniamo compatibili con il nostro desiderio di poter contare qualcosa, riprendiamo in mano il nostro presente e ricominciamo a guardare al futuro, ricominciamo ad avere fiducia. Altrimenti saremo un’altra di quelle generazioni che sconteranno il rimpianto di avere avuto sui piedi la palla buona per segnare e di avere tirato fuori.

 

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